Pantofole. Capitolo 18. 13/08/2017

Pantofole. Capitolo 18. 13/08/2017

Sono le ore 22:41 del 12 Agosto.
Questa sarà l’ultima notte che dormirò qui in ospedale.
(Almeno per ora, insomma.)
Devo scrivere.
Non posso lasciar sfumare questa serata senza buttar giù dei righe.
È troppo importante, me ne pentirei.
Camminavo per il corridoio prima, e ho sentito le mie pantofole scorrere sul pavimento.
Ho pensato a quanto quel rumore identificasse la mia condizione di “ricoverato”, di “malato”.
Il titolo di questo capitolo sarà proprio Pantofole.

Lo struscio delle pantofole è colpa delle mie gambe stanche, spossate, pesanti.
La passeggiatina serale però , soprattutto stasera, devo farla.
Prima di andare a dormire saluto sempre tutti.

Stasera è diverso.

Nei nostri saluti c’è malinconia. C’è la consapevolezza che alcuni di noi forse non si vedranno mai più.

Numeri scambiati, foto.
Pacche sulle spalle.
Sembra proprio la fine di un bel viaggio.
Tipo la fine di una stagione d’animazione, dove pensi sempre di aver conosciuto persone uniche e speciali.
E quasi ti dispiace tornare alla vita reale.
E allora mi sono seduto qui in corridoio.
Guardo le mie pantofole che erano entrate seminuove qui.
Ora sono impolverate, sporche, vissute.

Ho pensato al tempo che ho passato qui.

Alla quantità di vita che ho respirato in questi tre mesi.
Alle storie che avrò per sempre cucite addosso.
Alla famiglia di dottori e infermieri che mi hanno sostenuto.
Si ragazzi, perché vi giuro qui è una famiglia.
Ci sono mamme esigenti, figli monelli e poi anche i più bravi che non danno preoccupazioni.
Pensero’ per sempre un po’ a loro.
Alle battute di Neddy.
Allo sguardo dolce di Mafalda.
Al profumo di NaturalGel.
Al mio JD.
Alla mattonella scardata del Box1.
Ai discorsi no-sense di Paolino.
Alla smaniosità di Pasquale che si arrampica sulle mazze delle flebo perché non ci arriva a staccare le sacche.
Agli sguardi allegri che mi arrivavano quando il disgusto era forte, e allora quei sorrisi me lo facevano passare un po’.

Sono un po’ felice e un po’ triste.

La mia guerra non è finita, ma sicuramente stasera si sta chiudendo un importante battaglia.
Mi mancherà tutto questo.
Vivere la vita a ritmi lenti.
Godendosi ogni respiro, ogni movimento, ogni fottuta goccia, fino alla fine.
Trapassato le carni da energie chimiche ogni giorno, scombussolato, distorto, deragliato.

Travolto.

Nemmeno mi ricordo più bene quale fosse la mia faccia con la barba e con i capelli.
E mi piace tanto l’idea che sebbene un giorno cresceranno, sotto quei peli c’è la faccia di questo nuovo Ale dalle pantofole impolverate.

Chissà, forse sto sbagliando a scrivere ora.
Forse dovrei solamente godermi questi piccoli momenti preziosi in silenzio.
Solo.
È che poi non posso riviverli e quindi penso che devo scrivere.
E ma se poi mentre scrivo mi sto perdendo i momenti?
Sono confuso.

È che queste serate così intense non le so gestire.
Non l’ho mai saputo fare.
Le emozioni troppo intense mi hanno sempre affascinato, ma anche spaventato.
E allora mi ci calo dentro completamente, ma non troppo, risalgo quel giusto che mi possa dare via di fuga.
Sto facendo anche stasera così.
Usando la scrittura per fuggire.
Per non calarmi troppo.
Per non lasciar che la nausea e la malinconia prendi il sopravvento.
È che sono stanco.
I tre mesi ora li sento tutti: la trans agonistica di questi giorni si è esaurita.
Partita finita. Game over.
Sono in panchina, mi sto asciugando la fronte dal sudore.
Bevo, bevo tanto, ma pare che l’acqua non mi disseti, la bocca rimane secca.
Il tiro è entrato, ma sono distrutto, ho dato tutto.
Mi prendo quei 10 minuti in panchina come al solito alla fine di ogni partita, per capire cosa sia davvero successo, e che poi la panchina stasera è la sedia nel corridoio di un ospedale, non cambia molto.
Sono sempre io, seduto a gambe larghe, piedi un po’ aperti alla LeBron James, le spalle un po’ curve, con gli occhi fissi sulle scarpette e le gocce di sudore che cadono dal mento.

Si, credo sia venuta ora di stare un po’ solo.
Con le mie pantofole sporche.
Senza pensare più a come chiudere in maniera figa questo capitolo.
Non voglio più distrarmi.
Sono stanco.

Dedico questo momento a quei venti minuti di angoscia che mi presero quando sentì il dottore parlare di metastasi.
A quella signora con la bandana verdina che mi diede la forza.
A quel giorno chiuso del Tubo della Pet/Tac.
Alla mia famiglia.
A mamma e papà.

A me.
A quello spirto guerrier che entro mi rugge.

(magari non è ancora finita, ma sentite che bel profumo..)

Peace

Ale

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