Ciao Suguta, sempre con me. Capitolo 46. 17/08/2019

Ciao Suguta, sempre con me. Capitolo 46. 17/08/2019

In questo momento mi trovo in auto con padre Daniel, stiamo letteralmente attraversando la savana.
Così, senza strada, saltando sulle pietre,bunghetebanghete.
Non è una strada battuta, ma lui ne sa a bomba e ci siamo affidati a lui.
Fango, animali, alberi direttamente dal re Leone.
Stiamo andando a Lodungokwe, un piccolissimo villaggio che si trova al Nord, sempre nel Samburu County.
Sto pensando ai ragazzi di Suguta.
Se solo avessi la possibilità di avere più tempo, o di essere più persone contemporaneamente, potrei stare con loro, e anche un po’ con la mia famiglia, e anche un po’ con i miei amici e magari potrei leggere, imparare a suonare il sassofono, vivere un anno a Madrid, riandare in quel bar sul fiume a Porto.
Divago, come al solito.
La verità è che tutti i miei pensieri vanno a lui.
Per sempre con me il ragazzino a cui ho regalato il cappellino di Jova.
Lo ricorderò per sempre salutarmi con ancora le lacrime agli occhi.
Occhi grandi, viso dolce, sguardo confuso.
Il primo giorno si era innamorato del mio cappellino, e allora gli avevo promesso che quando me ne sarei andato gliel’avrei regalato.
Promessa mantenuta.
Però, prima di andare via, mentre stavo preparando la valigia, avevo la porta socchiusa e lui è venuto da me.
Stava piangendo ma con grande dignità voleva evitare di farsi vedere e allora parlava di spalle.
Mi aveva riportato il cappellino: aveva paura degli altri più grandi che magari lo avrebbero picchiato per prendersi il cappellino.
L’ho abbracciato forte e ho cercato di rassicurarlo. Gli ho spiegato che poteva tenerlo a casa come ricordo, e magari indossarlo quando diventava più grande o magari poteva ridarmelo, non volevo venisse picchiato per uno stupido cappello.
Mi ha guardato con quegli occhioni incredibili, ci siamo lanciati un’energia speciale.
Ci siamo capiti.
Così ha preso coraggio e mi ha detto che l’avrebbe messo a casa.
Bè, mentre son passato con la jeep del padre, lui era lì, con il cappellino sulla testa, e mi sorrideva con gli occhi lucidi.
Aveva vinto la sua paura.
Lui non lo sa, ma dentro di me ha scatenato la tempesta.

A Suguta ho ascoltato storie incredibili.
Ho cercato di fare quante più domande possibili, sia a Sergio che ai Padri, che ai ragazzini.
Ad esempio quella di Jacob.
Lui è un ragazzino che vive in una stanzetta che gli ha donato il prete.
È orfano.
Ora ha 16 anni ed è un po’ il tuttofare del posto.
Stamattina mi è venuto a salutare e gli ho fatto qualche domanda.
Vuole diventare prete. Vuole aiutare le persone più deboli.
Fondamentalmente ha capito che l’unica via di salvezza qui è la Chiesa.
I preti hanno il potere, comandano loro.
Non ho mai ben capito perché la chiesa deve avere tutto sto cazzo di potere, ma poi leggo un libro di storia e mi ricordo di capire.

Ora qui con padre Daniel ci stiamo facendo lunghe chiacchierate.
Si parla dei Samburu, del rapporto uomo-donna, dell’Italia, degli animali che potremmo incontrare lungo il percorso.
Abbiamo già visto le zebre a tipo 5 metri dalla nostra auto, i cammelli a 1 metro, le capre a zero metri, tutti esattamente sulla nostra strada tanto che padre Daniel deve bussare per farli spostare.

Ma che viaggio assurdo sto facendo.

Mi ha appena spiegato che quell’albero che vedo in lontananza nasconde una caverna sul retro, viene chiamata House of God, perché tante persone si sono salvate li proteggendosi dalle piogge o dagli animali.

Poso il cellulare, devo ascoltare i suoi racconti, non posso perdermeli.

Road to Lodungokwe,
Habari,

Peace

Ale

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